Un giorno un umile pescatore iniziò a trovare la magia e la bellezza in ogni angolo d’Islanda, fosse anche il più invisibile e impensabile. E la storia di questo Paese cambiò per sempre.
Vi raccontiamo chi scopri l’Islanda.
Oggi per tutti è l’isola dell’aurora boreale, degli elfi, delle leggende e delle saghe, delle meraviglie naturalistiche, e delle vacanze avventurose, ma per la stragrande maggioranza della storia l’Islanda è stata una terra difficile in cui vivere. Intere generazioni di uomini hanno maledetto il destino di essere nati proprio qui, in mezzo all’Atlantico, lontano da tutto e da tutti. Non c’era poesia nei lunghi inverni, nel vento perenne, nel buio imperante, nei ghiacciai impraticabili che dividevano famiglie, città, villaggi, nei terreni incoltivabili, nei temibili vulcani, nella solitudine.
Fino a che, un giorno, un umile pescatore non iniziò a trovare la magia e la bellezza in ogni suo angolo, fosse anche il più invisibile e impensabile.
E la storia cambiò per sempre. E questa storia, la storia di Jóhannes Kjarval, ve la voglio raccontare.
Un giorno un caro amico, mentre gli raccontavo qualcosa sull’arte pittorica islandese, mi chiese se in Islanda ci fossero o meno dei musei d’arte. Non una domanda stupida, vista la lontananza con tutto ciò che riguarda il mondo e i suoi percorsi culturali e sociali, la sua storia relativamente giovane e una società fondata sulla sfida quotidiana della sopravvivenza, più che sull’urgenza artistica. Mi era venuta l’idea di rispondergli con le parole di Hlynur, il protagonista di 101 Reykjavik, del regista islandese Baltasar Kormákur, che rivolgendosi ad un amico, provocatoriamente, gli dice: “Il mercato delle pulci (Kolaportið) è l’unico museo d’arte a Reykjavik: se vuoi trovare i grandi tesori culturali d’Islanda, li trovi lì”. Tra le cianfrusaglie, gli utensili inutili ma mai buttati, gli oggetti elettronici fuori dal tempo e gli abiti di quarta mano.
Perché alla fine un’isola è così: l’isolamento ti educa a non buttare mai nulla e il mare ti insegna che, anche se lo facessi, sarebbe inutile perché tutto, prima o poi, torna a riva. E nella conservazione, nella lotta leopardiana dell’uomo contro la Natura, c’è spazio per il grande trionfo di essere arrivati fino ai nostri giorni, ma non per le velleità.
Immaginatevi un paese governato dalle dure leggi della natura, in cui le persone – al posto del caffè – bevono un amaro impacco di licheni, ed il cui vento e le frequenti tempeste obbligano a tenere la testa bassa, a centellinare le parole ed i discorsi, a non guardarsi in faccia; in cui i vulcani rappresentano una minaccia reale alla vita per molti secoli e, non a caso, alcuni di essi prendono il nome dalle donne che nel medioevo hanno compiuto atti deplorevoli. Un paese fatto di uomini che si rivolgono a Dio, chiedendogli che avessero fatto di male per meritarsi la condanna di vivere in questa parte di mondo (lo stesso islandese del dialogo leopardiano afferma:
Com’è successo quindi che, nel giro di pochi anni, sia avvenuta la metamorfosi da terra della condanna a luogo magico?
Il merito va certamente a Jóhannes S. Kjarval, un giovane pescatore proveniente da una famiglia umile che volle a tutti i costi fare dell’arte la propria ragione di vita e che, per primo riuscì a scovare – in quella matrigna e severa natura – la bellezza. Quella che è da sempre stata la peggiore delle condanne per gli abitanti di questa piccola isola a nord di tutto, per Kjarval è innanzitutto una fonte di bellezza. Così inizia a dipingerla: dipinge personaggi leggendari e paesaggi ma soprattutto il mondo degli huldufólk, il “popolo nascosto” delle leggende islandesi: se li immagina come gente che viene da lontano, dal mondo senza condanne, vestita bene con indosso i colori del mondo, gusto e sfarzo, nascosta però in un mondo parallelo. Il popolo nascosto è (forse) il frutto dell’immaginazione di un popolo rimasto per secoli lontano da tutto (immaginarsi l’altro mondo era un modo per andare oltre le dure stagioni, la solitudine e la povertà). Ma l’arte, d’altronde, non è proprio questa fuga?
Kjarval rappresentava tutto ciò attraverso uno stile inconfondibile che intreccia elementi assurdi e simbolisti. Molte delle sue opere uniscono il cubismo all’astrattismo e, questa promiscuità stilistica, rappresenta proprio la cifra dell’attività di quello che oggi è considerato il pittore più importante d’Islanda. I suoi quadri sono presenti nelle case dei ricchi islandesi ma anche in quelle della gente comune: non di rado infatti amava riconoscere un banale favore (ad esempio un passaggio in auto per raggiungere un determinato posto nella natura, in cui si sarebbe fermato a dipingere) con una sua opera.
Capire Kjarval vuol dire capire il senso dell’arte in Islanda; esso segna un prima e un dopo (oggi tutti gli artisti islandesi prendono spunto da lui e la natura stessa – da essere condanna – è divenuta fonte di ispirazione per musicisti, cantautori, poeti, scrittori, registi e pittori. La stessa Björk
gli ha dedicato un brano, nel suo album d’esordio del 1977).
In Islanda occorre lasciarsi alle spalle i musei rinascimentali, le grandi opere italiane ed i musei francesi, i monumenti delle piazze dedicate a questo o a quel personaggio storico. Qui l’unico vero monumento eterno è la contraddizione del rapporto universale tra uomo e Natura, che può essere allo stesso tempo condanna e motore di bellezza, a seconda di dove si indirizza lo sguardo; che è stato condanna e, da Kjarval in poi, bellezza.
Al mio amico che mi chiedeva dei musei d’arte d’Islanda consiglierei di meditare di fronte a queste distese e ad immaginarsele durante una bufera di neve o un’eruzione vulcanica. Gli chiederei: riesci a vedere il popolo nascosto tra le fessure di quelle rocce vulcaniche? Lo vedi quel verde del muschio che copre le distese laviche? Ti affascina quel mare, che nei fondali nasconde i corpi dei pescatori o il vento perenne che non rende possibile la vegetazione – e difficile la vita – sull’isola?
Proverei a spiegarglielo ma poi gli consiglierei di andare al museo Kjarvalsstaðir, uno dei tre siti che compongono il Museo d’arte di Reykjavík, il Listasafn Reykjavíkur, perché i quadri di Kjarval raccontano molto di più di qualsiasi guida.
Oppure gli consiglierei di fare come faccio ogni volta che mi trovo nell’est islandese: vado davanti a questa insignificante casetta bianca in legno e mi immagino di vedere un uomo che alle luci dell’alba estiva trascina la sua barca verso il fiume Selfljót, si fa un giro, punta alla baia di Héraðsflói, poi torna e si mette a dipingere, dando un senso a tutta questa solitudine.
Ecco, quello era Kjarval e questa casetta bianca, la Kjarvalshvammur, fu l’unica proprietà in vita del pescatore-artista che per primo scoprì la bellezza d’Islanda.